DINO FORMAGGIO, Intervento galleria Joannart Vicenza 18 aprile 1997
Due parole agli amici e agli amanti dell’arte. Questa mostra di Anna Caser mi interessa particolarmente perché credo che imponga un problema di sensibilità tale da fare della Caser un’artista assolutamente originale e straordinaria. La Caser è quel che si dice un pittore di razza. Forse nei due sensi: perché, intanto, viene da famiglia di artisti. E qui non dico niente di nuovo, perché probabilmente molti conoscono il cammino fatto da Anna Caser. Tutta la sua formazione dell’infanzia, dell’adolescenza avviene per così dire, circondata dall’arte, perché in casa sua, intanto, venivano parenti che praticavano con molto successo anche l’arte: il famoso zio d’America (che aveva avuto successi a New York, è stato anche a Boston se non sbaglio), ma poi a New York aveva messo uno studio a Brodway, e in casa di Anna quindi c’erano tutti questi quadri dello zio, uno zio del padre, ed era quindi per lei una gioia formativa quella di contemplare questi quadri; poi, in casa sua c’erano quadri di artisti contemporanei, Sironi se non sbaglio, poi vi bazzicavano Tomea, Scanavino, molti degli artisti di quel tempo, con i quali dialogava, in particolare i cugini, i fratelli Trentini, che sono tra le espressioni più tipiche e anche più valide della pittura veronese degli anni ‘20 circa, (‘20 - ‘30), forse soprattutto negli anni ‘20. Quindi una formazione che evidentemente metteva nel corpo l’arte, metteva nel sangue la pittura, lei stessa parla di essersi esaltata all’odore dell’acquaragia, delle trementine e, chi fa pittura, sa cosa vuol dire sentire il profumodella trementina e della acquaragia per un richiamo non solo al lavoro, ma quasi all’anima stessa del dipingere. La seconda ragione per cui è quel che anche si dice un cavallo di razza è che la Caser ha fatto la corsa da sola, in testa, per conto suo, non ha mai seguito questa o quella scuola, non ha mai avuto per così dire un vestito altrui da indossare, da sola muoveva in estrema tensione e semplicità insieme verso la costruzione delle forme come nascevano dentro di lei. In questo senso la sua pittura mantiene valori, percosì dire interni della vita interiore, si direbbero mitici (anche se non appare a uno sguardo superficiale). La loro costruzione formale è senza dubbio qualcosa che nasce da un interno intimo, profondo, che fa venire in mente quel che era l’antica saggezza di civiltà come la cinese o la giapponese, dove gli antichi saggi dicevano che per dipingere bisogna avere lo “ha-ha”, una tensione che si respira, e questo avere lo “ha-ha” voleva dire avere la sensibilità immersa con la sensibilità armonica di tutto quanto l’universo, voleva dire sentire che una cosa è legata all’altra, sentire che niente può essere qualcosa che può padroneggiarci, che può vincere la nostra libertà creativa, tutta affidata a questa sua interna autonomia creativa, tutta fondata sulla spinta di quelle che erano le figure delle formazioni adolescenziali. Non tollerava fantino, questo cavallo di razza, di nessun genere; semmai, se ne liberava disarcionandoli e questo era il problema veramente di fondo non del suo dipingere soltanto, ma del suo intero vivere, per cui vita e pittura erano, sono e saranno, la stessa cosa per Anna Caser, come lo è in fondo per un orientale. Perché, nella grande stagione, intendo, della pittura orientale (la pittura per esempio influenzata da tutta quella che è la mistica zen) è questa solidarietà con le forze universali, questa solidarietà con l’altro, un non vivere per sé ma per il senso che si ha della comunità. Cosa che il nostro popolo purtroppo è ben lontano dal possedere. Questa pittura avrà poi altri pregi ma certamente vive di tutto quello che è il senso dell’esistere comune con le forze universali, quindi con la simpatia verso le cose, con la simpatia verso un albero, verso un fiore, tutto è vivente, tutto è qualcosa che in qualche modo può entrare in un rapporto sentimentale, emozionale con noi. Per questol a sua pittura, avanzando, viene sempre più arricchendosi dapprima di elementi anche matematici che potevano venirle dalle grandi scuole, persino da un Klee, che è certamente una delle lezioni fondamentali di tutta l’arte contemporanea, ma poi anche questo a poco a poco se lo disarciona, se lo abbandona, e s’affida infine sotto uno shock che la tocca in un viaggio nel Nord a contatto con quella che viene generalmente catalogata come pittura del movimento Cobra; allora ecco l’intensità violenta dei colori, il passaggio da una tinta ad un’altra, ma senza che per questo si creassero delle dissonanze troppo gravi. Perché dentro a questi passaggi, dove, per esaltare un rosso si prende anche la polvere viva del colore e la si incolla sopra la tela, allora di fronte a questa forza, cercata e qualche volta anche drammaticamente esaltata, sul quadro rimangono a vivere certi alberini piccolissimi, dei minuti ricordi che sono i ricordi della campagna della pittrice, i ricordi che continuavano a vivere in lei della sua casa di Negrar. Infatti, dopo aver abitato prima a Genova per una ventina d’anni, poi a Verona, la famiglia sua qui raggiungeva gli autunni colorati della vendemmia, per la pigiatura che rallegrava la casa avita, e in questa casa , la casa delle vacanze, la casa in cui venivano i cugini Trentini, veniva Nurdio soprattutto, gli incontri erano incontri di donazione, si potrebbe dire, una donazione continua. In fondo Anna Caser, a mio avviso ha sempre cercato la donazione, dell’altro, la donazione del mondo, la donazione che una armonia non sempre tutta composta, qualche volta rotta, frantumata, poteva tuttavia ancora dare senso al vivere e al lavorare. Anna Caser, quindi, anche in questa sua nuova produzione, reduce da posizioni di rilevante successo, in America recentemente a Chicago, reduce da altri riconoscimenti avuti più all’estero, diciamo, che non nella sua città di Verona dove ancora abita, ha potuto mantenere dentro di sé quel senso dell’antica saggezza orientale quando appunto si diceva che vivere voleva dire amare la vita insieme al bene e al bello, voleva dire sacralizzare il mondo. D’altra parte, però, nasceva il problema di fare un’astrazione che non fosse un’astrazione né geometrica, né astratto-sensibilistica, né diciamo Mondrian neppure più Klee ad un certo momento, che tanto aveva agito su di lei, né Kandinsky; ma un astrattismo che fosse quanto più possibile concreto. Cosa che voleva dire, io credo, che la vera soluzione dell’astrattismo non è più di essere un’antitesi con il cosiddetto figurativismo; la vera soluzione dell’astrattismo è di far poesia con dei segni che non sono più i segni della realtà che sta davanti, ma sono i segni della realtà che sta dentro di noi e questi segni dovevano essere quelli dell’antico saggio giapponese, che diceva di chi possiede questo spirito di fusione con le cose, con la natura e con la memoria, l’immaginazione che si nutre della memoria. Anna, di questa nutrendosi, rievoca, i piccoli segni, qualche volta pudicamente nascosti dentro al quadro, gli elementi della sua giovinezza, gli elementi che in lei avevano per primi cantato nella natura, con le pure voci della natura, la poesia del senso vivente del mondo, questa è poi quella che lei concretamente cerca di attuare e attua.
DinoFormaggio, Intervento galleria joannart vicenza 18 aprile 1997
Download » [in formato PDF]