ORDITO AUTOBIOGRAFICO
1.Importante è il segno lasciato da Ettore Caser (uno zio di mio padre), un pittore formatosi nel periodo Liberty, allievo di Ettore Tito e De Maria all’Accademia delle Belle Arti di Venezia, che, dopo una carriera di successo (XIII Biennale di Venezia, presenza nelle gallerie d’arte di Brera e all’Albertina di Milano), emigrò nel 1909 negli Stati Uniti, prima a New York e poi a Boston, tornando volontario in Italia allo scoppio della prima guerra mondiale. Nel 1920 ritornò a New York. Antifascista convinto, in Italia non mise più piede. La morte lo colse nel 1944, nel suo studio di Broadway. Un mito, la casa piena dei suoi quadri, quelli più vecchi fatti in Italia e quelli che ritornarono con diverse traversie, dopo l’asta che fecero alla sua morte. Alcuni quadri un po’ macchiaioli, altri simbolisti, acquaforti, atmosfere scure intrise di un vago mistero. Molti richiami di atmosfere veneziane. Oggi il pittore viene riscoperto nella pubblicistica e nelle aste americane.
Remoto è il ricordo del fratello del mio bisnonno, lo scultore veneziano Pietro Caser. In casa si sapeva che era stato l’artefice dell’angelo dorato che sta sulla sommità del campanile di San Marco. Di lui rimangono vecchie fotografie, legni e cornici intagliati.
Poi i cugini veronesi Trentini: Nurdio veniva sempre nella casa della Valpolicella quando noi da Genova andavamo per passare il settembre e assistere alla vendemmia, pigiando l’uva nella corte. Nurdio ci dipingeva vecchi armadi ‘800 e ci faceva le caricature la sera a tavola. Preparava grandi cartoni per la “Festa dell’uva”. La casa si riempiva di barattoli, pennelli, solventi, macchie a terra. Si parlava del padre Attilio, pittore e decoratore liberty. Io ero incantata da un suo quadro di rose che avevamo appeso nella saletta vicino alla cucina con una grande cornice di legno scuro. Si parlava delle mostre di successo di Guido e della sua partecipazione alle biennali di Venezia. Si favoleggiava anche di Angelo Barabino, allievo del pittore Pellizza da Volpedo, di Tortona, anche lui parente non so più neanche bene come.
A Genova venivano a casa mia Rocco Borella e qualche volta Emilio Scanavino. Una volta incontrai pure Fiorenzo Tomea, amico di mio padre, che fece le sue candele storte sull’album dei ricordi. Con Rocco Borella ci fu la scoperta per me della ceramica ad Albisola; la libertà di far colare il colore, la libertà di non dover raffigurare, ma di poter lasciare anche al caso l’espandersi del colore. L’emozione della ceramica cotta dove i colori cambiano, dove la cristallina diventa lucente.
Il mio liceo artistico, la mia amicizia, che ancora dura, con Natasha Pulitzer, ora architetto a Vicenza, allora a Genova, figlia di Gustavo Pulitzer, architetto navale. Ero più a casa sua che a casa mia. Nella sua famiglia di intellettuali c’erano spesso personaggi affascinanti, come Lele Luzzati che per tanti anni lavorò per loro. Oltre a decorare navi, affrescava anche i muri della loro casa, dipingeva i mobili e faceva bellissimi arazzi con segni forti e giocosi. Alle pareti c’erano anche molti quadri di Sironi, anche lui collaboratore dell’architetto Pulitzer. Io provavo a volte ad imitarli: a casa mia dipinsi un armadio-letto in stile Luzzati.
A Roma: l’avventura alla ricerca dell’Accademia di via Di Ripetta, l’incontro con i pittori che esponevano in via Margutta, a vedere le gallerie, a chiedere timidamente a qualche gallerista se potevo esporre. L’incontro con Marcello Venturoli, con Rolando Monti, con Giuseppe Gatt e quanti discorsi! Pur di arrivare alle lezioni del corso di Monti me ne partivo dalla Giustiniana sulla via Cassia, dove allora abitavo, e con code di macchine interminabili, già allora negli anni Settanta, lasciando le mie due bambine Silvia e Orsola a un donnone romano, la Lorenza, raggiungevo in un’ora via Di Ripetta. E ancora, incinta del mio terzo bambino Zeno, organizzavo la mia prima personale importante alla galleria “Della Pigna” presentata da Venturoli.
2.Ho conosciuto anche l’impegno politico in anni difficili per l’autonomia artistica. Intimista, portata al sogno, non potevo certo creare immagini politiche. Sono stati gli anni delle lotte, delle manifestazioni. Impaginando e discutendo; poi curando alcuni allestimenti scenografici dei festival politici. Pannelli giganteschi sempre da inventare, manifesti, tanti, locandine, giornalini anche per il sindacato, gli artigiani, i tessili, i metalmeccanici, le donne, l’8 marzo, il lavoro. A volte i miei ragazzi si divertivano a vedere i muri della città tappezzati dei miei manifesti.
La strage di Brescia: devo fare un’incisione, è il momento della mia confusione artistica, devono esserci forme riconoscibili, la ricerca del realismo (sembra oggi così lontana) mortificava la mia pittura astratta. I miei personaggi dovevano avere gli occhi, piccoli punti per poter essere riconoscibili. È il periodo dei lavori con l’areografo e con le bombolette a spruzzo, per riempire grandi spazi, per poter riprodurre in copie uniche e veloci con sagome di cartone, le immagini; per poter essere con Benjamin e l’arte e la società di massa. Espongo a Varese al Castello di Masnago, ci presenta Giorgio Seveso, viene a vedere anche Guttuso che poi scriverà un articolo sul giornale locale ironizzando sulla mancanza del pennello a favore delle bombolette spray. Più tardi sono addirittura eletta consigliere comunale a Castiglione Olona. In conclusione, è stato un periodo fecondo sul piano della formazione politica, ma di difficile equilibrio artistico, familiare e personale.
3.Nei miei ricordi un posto importante ha l’infanzia e prima di tutto viene il mare. I miei genitori venivano da Venezia e Venezia è sempre stata presente, anche nella loro parlata. Fino a vent’anni ho vissuto a Genova, altra città di mare. Il mare: tranquillo, increspato, mosso, spumeggiante, sempre vivo con il suo odore salmastro. Le mareggiate, le grandi onde sugli scogli. Il porticciolo di Boccadasse.
Venezia voleva anche dire il fascino della trasparenza del vetro soffiato. Ricordo i vetri di Murano, tanti, che la sorella del mio papà (lavorava da Venini a Venezia) portava, regalava, sovente, pezzi con qualche imperfezione, che poteva tenere. Trasparenti, lattiginosi, con bollicine, grossi e rugosi di un forte azzurro oltremare o verde di cobalto, a strisce, striati d’oro, trasparenti con spirali bianche, murrine, un grande grappolo d’uva oltremare scuro spruzzato d’oro, la giraffa arancione. Casse da scoprire nel “barco” della casa di campagna: vasi con grandi manici a volute, lampadari con piattini e gocce, palle trasparenti azzurrine, violette, gialline, bicchieri delle tavole imbandite di Paolo Veronese. Forme cinquecentesche che arrivavano dal gusto liberty e decò fino agli anni Cinquanta.
Nella mia pittura però non ci sono solo trasparenze, affiora anche la struttura. Mi smarrisco nel quadro e quando ritrovo una linea, emergono antichi ricordi. Diventa allora certezza e costruisce attorno a sé aggregazioni continue. Certi effetti sempre cercati nascono all’impronta come il lampo, e poi li rincorro. A volte cerco passaggi da positivo in negativo, ma quando penso di aver scoperto la legge, la chiave di lettura, il codice cambia. Amo creare forme uomo-casa-natura non solo misteriose, ma anche ambigue in una continua generazione cristallina, senza tempo, senza spessore, che rimanda a spazi lontani in forme geometriche, unico appiglio reale di una realtà di carta: la cartina stropicciata delle caramelle dell’infanzia. Tutto è carta leggera, increspata, a volte trasparente, che ondeggia come una trama al vento e si accartoccia e volteggia e si posa e si nasconde. Poi appare all’improvviso. Avolte ti toglie il fiato, a volte è dolcissima, a volte è un ricordo non sai bene di che cosa. Ogni forma non ha soluzione. Il movimento di potenziale spinta in avanti è bilanciato dall’elemento che si volta indietro e frena il percorso. Spinte e controspinte si succedono in uno spazio rarefatto con superfici corrose dove la solitudine domina incontrastata. A volte uso tracce e fondi d’oro. In un fondo dorato ti puoi immaginare qualsiasi cosa. Pervade la tela un gran senso di mistero e di maestosità. Cambia luminosità a ogni ora del giorno. È ambiguo. L’oro mi serve per eludere il tempo.
4.Le mie immagini nascono dalla volontà di dare vita a un caos organizzato poetico. L’irregolarità e l’imprevedibilità sono insiti nella generazione naturale. L’irregolarità di una linea, il suo spessore variabile incorpora la sua energia, la sua vitalità. L’aspetto formale nelle mie opere è tenuto insieme da strutture che sottendono tutta la composizione. Non cerco di rappresentare la natura, bensì di “funzionare” come la natura. Il caos, i sogni, l ’infondatezza li devo organizzare in un reticolo ripetitivo-variabile, un po’ incerto, in uno spazio caotico che non ha dimensione. In esso ogni cosa ha la stessa importanza. Un elemento compositivo non è necessariamente più importante di un altro. Tutti gli elementi hanno un valore primario. Non c’è nulla di secondario nell’emozione. Perciò niente arretra e fa da sfondo. Lo spazio è una superficie piana che collega come elemento gli altri elementi. Le nuvole, le piante, le conchiglie, il bianco tra le figure come elementi non contaminati e desiderio di verginità. Non c’è bisogno di prendere appunti sulla natura. Quello che conta è il ricordo che fa vedere contemporaneamente ciò che è passato nella memoria. Sopra, sotto, a destra a sinistra, davanti, dietro, dentro, perciò non serve la prospettiva rinascimentale, non servono tre dimensioni. Tutto si stende su un unico piano. Tutte le cose e i colori dell’emozione si organizzano liberamente, non costretti inimpalcature prospettiche. Nel nostro inconscio non esiste prospettiva.
Nelle mie opere più recenti ho ricercato una più tesa drammaticità attraverso colori più vivi. Un incontro importante è stato Gand, le Fiandre e il gruppo Cobra. Agosto ‘94, vado a trovare mia figlia Orsola che é là a preparare la tesi di laurea. Cittadina affascinante, fiabesca, mi procura molte emozioni. Si respira oltre al magico e al fantastico dell’architettura medioevale e rinascimentale nordica, oltre a Jean van Eyck, anche molto Magritte, Delvaux, e il gruppo Cobra. Noto che in Belgio tengono molto ai loro artisti. Nel museo d’Arte moderna di Bruxelles tutto l’ottavo piano è consacrato all’arte contemporanea belga. Io resto emozionata nel vedere la forza espressiva di Karel Appel, di Pierre Alechinsky, Asger Jorn. Vado anche ad Amsterdam, entro nella Nieuwe Kerk al Dam dove tra lampadari seicenteschi olandesi, organo e grandi banconi di legno scuro è allestita una grande mostra delle scenografie che Karel Appel aveva costruito per l’opera “Noach”, eseguita per l’Holland Festival. Animali di tutti i tipi, perché la storia é quella dell’arca di Noé, violetti a strisce rosse, verdine, senape, cavallucci marini rossi, arancione e gialli con strisce bianche. E ancora il museo of Modern Art Stedelijk, quindi tanto Corneille alla Modern Art Gallery. Rientro a Verona e cerco colori violenti, accostamenti forti sui miei fondi rugosi. Ritorno a pensare alla figura, che dagli anni ‘80 avevo volutamente dimenticato. Trovo figure possibili e cerco di inserirle in grandi spazi, a colloquio muto, tra le mie reti frattali. Cerco di capire se quegli effetti cercati e nati all’improvviso siano ancora per me così importanti.
5.Chi mi consce a fondo sa che il mio temperamento conosce momenti di intensa allegria, ma soprattutto di malinconia: grigio autunno un po’opaco. L’atmosfera immobile e un po’ magica assorbe anche irumori. Non sembra che possa esserci un dopo, solo il passato e questo momento. Sono legata a questa antica tristezza. Mi dà la sensazione dell’inconsistenza. Avvolge con tenerezza le grandi passioni. Il dolore lo rende quasi un gioco leggero che si può anche mettere in soffitta tra le vecchie stoffe, i merletti dimenticati, le lettere del bisnonno legate con lo spago polveroso, i lustrini ormai offuscati di un vestito da sera.
Le mie immagini sono la materializzazione di ciò che mi dà ancora l’impulso di vivere, sono la mia curiosità di guardare oltre, sempre incantata e meravigliata di scoprire il processo vitale delle cose. Tanti piccoli pensieri e nostalgie per sapere chi sono. Nelle mie strutture ognuno può vedere le forme umane o vegetali o un ricordo, la percezione di una cosa già vissuta, un lampo nella memoria, struggente, inespresso. Alla fine a me interessa l’aspetto ludico della pittura, come esperienza di ricerca divertita dell’integrazione con altri codici visivi, di ricerca del costruibile, intrecciata ad altre ricerche. Dipingere è come parlare o fare musica. Qualcuno capisce, altri no. Mi interessa comunicare le emozioni, il piacere di interpretare alcune forme, le strutture, le trasparenze, le linee, i contrasti. L’emozione sempre mi nasce da un’immagine, quasi mai dalle parole. La mia realtà è enigmatica e sfuggente, fatta di rapporti fra persone alla ricerca di un restauro, almeno dei sentimenti.
Anna Caser